domenica 4 novembre 2012

TOMMY CASTRO, NUMERO UNO!


PREMI PLAY E LEGGI L'ARTICOLO, GRAZIE
 


Stavolta mentre leggete queste righe dedicate ad un altro grande musicista, Tommy Castro from San Josè. California, classe 1955, potete sollazzare i vostri timpani con un pò di musica; ecco a voi la mia prima recensione multimediale :)
"Questa blue-collar rock'n'soul band non fa prigionieri" è scritto sul retro copertina di LIVE AT THE FILLMORE, e non esiste niente di più vero. La Tommy Castro Band sicuramente non propone nulla di nuovo ma è veramente quanto di più "hot" possa esserci in circolazione. Il disco dal vivo propone una selezione di pezzi tratti da RIGHT AS RAIN, qualcuno dai dischi precedenti come il focoso funky di Nasty Habits e la possente Can't Keep A Good Man Down e si conclude nientepopòdimenoche con una spettacolare versione del classico di James Brown che state ascoltando se avete premuto PLAY, un'intoccabile che Castro ha il coraggio di affrontare con nonchalance e risultati eccellenti. 
L'album è uscito nel 2000 ma io ho conosciuto Tommy un paio d'anni prima, con l'acquisto di RIGHT AS RAIN. Fino ad allora era per me un emerito sconosciuto e non devo essere stato l'unico. Il californiano ha fatto una lunga gavetta ed è arrivato ad incidere il primi disco solista solo negli anni novanta: grande voce, ottimo manico, un musicista da conoscere e seguire. L'attenzione del negoziante che me lo propose fu attratta dalle note di copertina che lo descriveva come chitarrista influenzato da Steve Ray Vaughan, Duane Allman e Bill Gibbons, un rapido ascolto e subito me lo portai a casa anche se con Stevie ha in comune solo la Stratocaster o poco più e con i due Gibsoniani neanche quella!!! Ha invece una bella e caldissima voce, siamo dalle parti di un ruggente Otis Redding, Castro però è anche un eccellente chitarrista e ci da dentro che è un piacere lungo tutta la durata del disco.
Bisognerebbe ora aprire una parentesi affrontando un tema a me caro, ovvero: il blues è tutto uguale, i giri sono sempre gli stessi, di musicisti più che bravissimi ce ne sono in quantità MA? Si, c'è un ma, esiste un qualcosa in più, c'è un alchimia che alcune volte viene miracolosamente raggiunta e rende il disco un pò più attraente rispetto alla massa di opere simili, in alcuni casi decisamente più attraente, in rari casi ti fa cappottare dalla gioia ed è allora che il dardo di Cupido ti trafigge senza pietà e ti spinge a posizionare il disco sulla bacheca dei preferiti, per sempre. Sicuramente passato il primo entusiasmante periodo in cui lo suonerai quattro volte al giorno calerai poi la dose, ma prima o poi quel disco finirà per essere riascoltato e ti darà sempre lo stesso piacere.
RIGHT AS RAIN appartiene a questa categoria, un blues soul venato di rock'n'roll frizzante, caldo, eccitante che coinvolge dalla primo all'ultimo dei suoi 50 minuti di durata. Questo piccolo combo, Tommy chitarra e voce, Randy McDonald al basso, Billy Lee Lewis alla batteria ed il grande Keith Crossan al sax, fa miracoli già con l'irresistibile Lucky In Love travolgendo immediatamente l'ascoltatore, perpreta l'assedio sonoro con Like An Angel, memphisiana e molto vicina al sound creato dalla band di Delbert McClinton. Delbert è in effetti il primo artista che mi è venuto in mente appena ho scoperto Castro, sono molto vicini sia vocalmente che musicalmente, in più Tommy suona splendidamente la sua Stratocaster. Un altro dieci se lo becca la title track ma non c'è un pezzo in tutto l'album che denunci un calo di ispirazione, quasi tutti brani originali e poche covers, i nomi trattati sono quelli di Steve Cropper, Isaac Hayes, Dozier & Holland, eccellente RB e soul with the capital S come dicevano i Tower of Power.
Dal repertorio di Sam And Dave ecco Don't Turn Your Heater Down che ospita, guarda caso, proprio Delbert McClinton e si fa fatica a distinguere i due. Poi I've Got to Love Somebody's Baby che cantava il grande e dimenticato Johnnie Taylor. Siamo solo a cinque pezzi ma lo stereo brucia, è raro ascoltare un cantante di tale intensità; I Got To Change scorre via come l'olio, poi If I Had A Nickel, tempo più lento e passione in costante crescendo, è un altro degli highlights del disco. La fiatistica e swingante Calllin' San Francisco contiene uno dei più focosi passaggi "a salire" che mi sia capitato di ascoltare. Just A Man potrebbe portare la firma di Otis Redding o Sam Cooke invece è di Tommy.
Chairman Of The Board è un super shuffle con organo in bella evidenza (gli ospiti dell'album sono gente come Dr John e Jimmy Pugh), poi abbassamento e via con l'assolo in crescendo (ecco Steve Ray che viene fuori), cambio di tonalità, altro abbassamento, botta e risposta tra la voce solista e le backing vocals e nuovo crescendo finale. Poi è il funky di My Kinda Woman che ci fa muovere le chiappette, sembra di ascoltare James Brown e non si riesce a non saltare qua e là per la stanza. Le emozioni volgon l termine, la Tommy Cstro Band ci saluta con un altro shuffle trascinante. Sembra di assistere alla gioiosa conclusione del concerto di una di quelle big bands di mostri sacri, tipo B.B.King, che terminano lo show con questi brani sui quali presentano i musicisti e salutano, scendono dal palco mentre la band continua a suonare a luci completamente accese e ti mandano a casa col sorriso che ti attraversa il viso da parte a parte. Anche Tommy Castro è uno di questi grandi, questo disco è fino ad oggi il suo punto di riferimento, i precedenti sono serviti da preparazione, i seguenti lo hanno, secondo me, scimmiottato un pò senza raggiungerne la bellezza. Con HARD BELIEVER del 2009 ha colpito di nuovo catturando di nuovo la mia attenzione ed inserendo qualche piccola novità nelle sonorità scelte.
E' già stato in Italia ma non ho potuto vederlo, spero di averne presto l'occasione, siete tutti invitati.


G_BARONCELLI

mercoledì 31 ottobre 2012

GOV'T MULE !!! THE FILLMORE, San Francisco CA, 10-23-1999

 
Sono un collezionista, dischi in vinile (meglio se originali), CDs ma sopratutto sono le registrazioni dal vivo che mi hanno sempre attratto in particolar modo. Fin da giovinetto cominciai a scambiare cassette con altri collezionisti italiani entrando nel mondo dei cosiddetti tapetraders, più avanti i tapes si sono trasformati in CDs, il fronte di amicizie si è allargato a dismisura con internet ed ho così potuto scambiare massiccie quantità di registrazioni con amici tedeschi, inglesi, americani ed altri paesi del mondo. Oggi poi la tecnologia è venuta incontro anche a chi non ha voglia di prendersi la briga di duplicare i CDs, impacchetarli ben bene e passare metà del pomeriggio all'ufficio postale; abbiamo internet ed i torrent, basta fare una bella ricerca e con un click ci scarichiamo tutto, o quasi, ciò che ci interessa.
Coloro che si divertono a registrare all'estero tra l'altro non lo devono fare di nascosto e sono molto più professionali, la moda lanciata dai GRATEFUL DEAD già negli anni settanta e sessanta di registrare ogni singolo spettacolo dal vivo e lasciare ai fans l'opportunità di farlo liberamente ha fatto proseliti. Il tutto naturalmente senza nessun scopo commerciale, queste bands, che dal vivo rendono decine di volte più che in studio, non hanno certo paura di far catturare l'attimo ai fans, certi tra l'altro che più si diffondono le registrazioni e più aumenteranno i fans al prossimo concerto e molti di loro compreranno anche i dischi regolarmente immessi sul mercato. I PHISH alcuni anni fà sono diventati il gruppo col maggior seguito al mondo grazie a questa politica.
Il fan viene a sentirti in concerto, paga un biglietto non certo economico che si và a sommare spesso alle spese del viaggio, perchè non dovrebbe essere libero di catturare quella musica che ha pagato e portarsela a casa? Tant'è vero che ad esempio gli ALLMAN BROTHERS hanno cominciato negli anni novanta a registrare ogni singolo concerto in tempo reale e, chi lo desidera, uscendo dal locale alla fine dello show può passare alla cassa a ritirare il suo bel doppio o triplo CD completo di copertina naturalmente. Questi sono chiamati Instant Live. La cosa funziona anche commercialmente e lo hanno dimostrato i PEARL JAM quando registrarono tutte le date di un tour (europeo mi pare di ricordare) e le mandarono nei negozi, fino ad allora i signori delle case discografiche avrebbero considerato la cosa un suicidio commerciale, oggi sappiamo che non è così.
Naturalmente perchè la cosa abbia un senso bisogna che il gruppo faccia la sua parte, mi spiego meglio. Non deve essere un gruppetto di cacca (sarò buono) da classifica ma deve offrire una certa varietà, certo se la scaletta fosse la stessa tutte le sere, anche se suonata in modo eccezionale, non avrebbe senso procurarsi più date dello stesso tour. Nel caso dei gruppi che seguo con più interesse infatti non è così, la proposta è ANCHE TROPPO varia nel caso ad esempio dei GOVERNMENT MULE, si può provare a procurarsi le registrazioni di una trentina di concerti cronologicamente susseguenti ed avere altrettanti spettacolari concerti diversissimi tra loro, molte volte anche grazie all'occasionale presenza di vari ospiti che arrichiscono il menù.
Mi sono innamorato dei GOV'T MULE, i Muli come li chiamiamo noi, tanti anni fà, nel 1995 o 6, quando acquistai quasi casualmente il loro spledido esordio autointitolato, con quell'enigmatica copertina e le dodici tracce elencate sul retro tra cui Mr Big che tanto speravo essere la cover di uno dei brani migliori dei grandissimi FREE (ed infatti appena lo ascoltai ebbi la conferma). Due dei musicisti rappresentati sul retro copertina mi erano del tutto sconosciuti, l'altro era Warren Haynes, suonava negli ALLMAN BROTHERS ed era il vero artefice della loro rinascita artistica, ma all'epoca la cosa non era ancora chiara a tutti. Ma non voglio qui recensire questo disco meraviglioso, vi dico solo che quando lo ascoltai quasi svenni dal piacere, propio come mi successe diversi anni prima quando ascoltai Made In Japan dei DEEP PURPLE.
Oggi arrivo a casa, mi avvicino alla libreria e pesco a caso un CD, salta fuori un doppio dal vivo, uno dei pezzi della mia collezione, due ore ed un quarto di intense emozioni, mi viene voglia di scrivere qeste righe. Che si tratti dei Muli lo avete capito, lo spettacolo risale al 23 Ottobre 1999 quindi parliamo dei Muli DOC, quelli veri, il trio originale, quelli con quel suono possente e fantasioso, quelli che oltre ai loro brani proponevano covers di tutte le mie bands preferite degli anni settanta, HUMBLE PIE, FREE, GRAND FUNK, MOUNTAIN e via così. Quelli che non avevano avuto ancora neanche la minima incertezza, l'ispirazione era al massimo e di lì a poco avrebbero pubblicato il loro capolavoro discografico, Life Before Insanity, per la prima volta registrato con la collaborazione di un tastierista, Johnny Neel,  ad ampliare la gamma di suoni emessi dal granitico trio fino a quel momento. Di lì a poco però avrebbero subìto il grave lutto che li cambiò per sempre, meno di un anno dopo Allen Woody non si sarebbe più risvegliato e la magia non fu mai più la stessa.

Allontaniamo però i pensieri tristi, tuffiamoci nela musica. Quella sera al Fillmore di San Francisco i fortunati presenti assistettero ad un energico primo set comprendente anche un paio di anticipazioni dal nuovo album, Bad Little Doggie e Life Before Insanity già da tempo proposte dal vivo, una splendida jam comprendente She Said She Said e Tomorrow Never Knows dei BEATLES ed una zeppeliniana How Many More Years (scritta però da Howlin' Wolf) oltre naturalmente al manifesto Mule posta in apertura.
Breve pausa e poi ecco il secondo set: Warren chiama il primo ospite e gli astanti vedono salire sul palco Gregg Allman a dare inizio alla seconda parte della jam. E' Soulshine a dare il via, cantata a metà dai due, poi Dreams a proseguire il repertorio allmaniano. Poi un'altro gradito ingresso, John Popper, che arricchisce con la sua armonica Before The Bullets Fly scritta da Haynes e John Jaworowicz per l'album solista di Gregg del 1988. Segue Stormy Monday poi, dopo aver ascoltato i Muli e gli Allman Brothers ecco i Blues Traveler, così siamo a tre gruppi al prezzo di uno! John Popper innesta due pezzi dal repertorio della sua band, Low Rider e Mountain Wins Again. Fine concerto sembra, ma le sorprese non sono finite: per i bis ecco Audley Freed prima e Chris Robinson poi, giusto per scomodare anche i BLACK CROWES, un paio di classici strepitosi come 32-20 Blues e The Hunter con la solita festa in nome della Musica.
Puro divertimento per il solo piacere di suonare con gli amici, che in questo caso sono anche musicisti di prim'ordine.

G_BARONCELLI


domenica 28 ottobre 2012

RELICS: JUNIOR WELLS AT TELARC

Il business discografico è fatto anche di mode, trends, corsi e ricorsi, chiamateli come volete, quando un disco suscita interesse ed ha successo ecco che tutti cercano di riproporne la formula applicandola in modo più o meno vincente fino alla saturazione ed alla noia, finché qualcuno tira fuori qualche altra novità. Così è stato per il disco unplugged, il disco di covers, il disco di duetti, fino alle edizioni potenziate, deluxe, che tante volte propongono interessanti inediti e molte altre vanno a raschiare il barile fino oltre il lecito.
I dischi dei quali ho voglia di parlare oggi appartengono a quella categoria di pubblicazioni che vedono un musicista della vecchia guardia, in questo caso un "vecchio" bluesman, un padre, uno degli originali, attorniato da tutta una serie di artisti attuali ad impreziosire nuove composizioni ed ammodernare i cavalli di battaglia del titolare del lavoro. Come i vari B.B.King, John Lee Hooker, Albert Collins e via dicendo, anche Junior Wells si è visto assegnare dalla propria casa discografica una serie di eccellenti musicisti, nomi più o meno altisonanti capaci di garantire un'audience più ampia di quella che il leggendario artista avrebbe potuto attirare a sé all'epoca della pubblicazione. Questa in fondo l'idea di base di questo tipo di progetti.


 

Una vera leggenda dell'armonica come Amos Wells Blakemore Jr approda in casa Telarc negli anni novanta e pubblica tre dischi in studio ed un live. Dopo un bypassabile BETTER OFF WITH THE BLUES (1993), arriva EVERYBODY'S GETTIN' SOME (1995) che contiene un blues non ortodosso molto funkeggiante e ricorre al "trucchetto" delle guest appearances, poi COME ON IN THIS HOUSE (1997) che è uno dei più belli di tutta la sua carriera. Il disco è puro blues elettrico ed acustico, registrato con la partecipazione di una serie di superlativi chitarristi slide, nomi come Derek Trucks, Bob Margolin, Tab Benoit, Alvin Youngblood Hart, Sonny Landreth, Corey Harris, i migliori sulla piazza insomma. Col ricorso a talenti del genere e ad autori come Sonny Boy Williamson, Arthur Crudup, Little Walter, lo stesso Wells ma a sorpresa anche Tracy Chapman, ciò che ne viene fuori non può che essere di eccellente livello. Il disco, con il cantato passionale di Junior e la sua magistrale armonica mai invadente, si può considerare quasi una bibbia per aspiranti chitarristi slide e comunque un capitolo da non perdere per tutti gli amanti del blues. Se analizziamo la sua discografia scopriamo che in effetti Amos non ha inciso molto a suo nome, più che altro dischi dal vivo ed altri condivisi col compagno di sempre Buddy Guy. COME ON IN THIS HOUSE si và quindi a piazzare proprio al fianco del famoso esordio HOODOO MAN BLUES (1965 Delmark), disco che fece conoscere al mondo la fenomenale harmonica del grande bluesman e rappresenta il "faro" di tutta la sua carriera. Dall'iniziale splendida rendition della nota That's Alright Mama, una delle più belle versioni ascoltate  con un lavoro eccellente da parte di Derek Trucks ed un assolo strepitoso, fino al conclusivo trascinante shuffle di The Goat, ci troviamo catapultati nella casa del blues raffigurata in copertina passando per capolavori come la title track, She Wants To Sell My Monkey o Mistery Train. Molti dei quattordici brani sono fantastici, il suono è maledettamente cool, i chitarristi come detto sono paurosamente bravi e Junior è ancora al top della forma anche se purtroppo pochissimo tempo dopo una grave malattia se lo porterà via per sempre. Questo diventa quindi il suo testamento sonoro, splendido con la sua alternanza di brani elettrici ed acustici, la sua freschezza e vitalità impareggiabili. Dopo quest'ultimo lavoro solo un live (AT BUDDY GUY'S LEGENDS) ed una partecipazione come guest star a BLUES BROTHERS 2000.
Le doti di questo disco sono universalmente riconosciute però mi preme parlare anche del disco di due anni precedente perchè trovo sia ingiustamente sottovalutato.  Anche qui tanti ospiti e, come recita il titolo, ognuno ci mette qualcosa di suo per raggiungere l'obiettivo: apertura affidata all'affascinante Sweet Sixteen (Al Green) e poi subito due ospiti eccellenti nella title track, Bonnie Raitt alla voce e la possente e riconoscibilissima slide guitar di Sonny Landreth. Poi Junior spara uno di quei funkettoni che poco piacciono ai puristi e che lo avvicina alle sonorità tipiche del godfather James Brown; l'armonicista è sempre stato un ammiratore di Brown ed ha già affrontato questo tema in gioventù tant'è vero che ripesca brani come You're Tuff Enough e I Can't Stand No Signifyin' da un suo sottostimato album del 1968 intitolato per l'appunto YOU'RE TUFF ENOUGH, al momento quasi introvabile, prodotto ed in gran parte composto da Jack Daniels per la Blue Rock, una sotto-etichetta della Mercury, pieno di funk, fiati e poca armonica, così si disse all'epoca.

 

Sulla stessa lunghezza d'onda anche Standing On Shakey Ground (TEMPTATIONS), Use Me del grande Bill Withers, una grande e sincopata Last Hand Of The Night e la conclusiva That's What Love Will Make You Do, dalla penna di Little Milton e dallo stile molto simile ad Albert Collins. La sezione fiati è quella dei LEGENDARY WHITE TRASH HORNS (ricordate Edgar Winter?) e la spumeggiante sezione ritmica è composta da Willie Weeks, basso, e Brian Jones, batteria. C'è però un altro ingombrante ospite, che già aveva fatto storcere il naso a molti per le sue comparsate nei coevi albums del re del boogie Mr. John Lee Hooker, ovvero il signor Carlos Santana. Effettivamente la sua chitarra spesso pare appiccicata a forza sui pezzi di Hooker, tra l'altro molto diversi dal tradizionale stile del blueman, ma in questo caso rende benissimo su Get Down, in piena sintonia col resto dell'album.   C'è anche lo spazio per due perfetti blues acustici, Keep On Steppin' e Don't You Lie To Me dove torna il grande e classico Junior ed una "normale" Trying To Get Over You.
Grande disco, cercatelo e non ve ne pentirete, un lato della personalità artistica di Junior Wells poco riconosciuto ma ugualmente grande.

G_BARONCELLI
 
 
MR. JUUUUUUNIOR WELLS !!!!




LIVE EXPERIENCE: ROYAL SOUTHERN BROTHERHOOD AT TRASIMENO BLUES FESTIVAL

 
Sto ascoltando un bel concerto, musica di qualità, non è un sound mai sentito prima, non mi fa buttare a  terra e rotolare dalla gioia, nemmeno mi fa accapponare la pelle, però è bello. Una musica calda ed avvolgente, una miscela perfetta o quasi di blues, sapori di New Orleans, un pò di Santana qua e là, melodia e ritmo con qualche occasionale spruzzata di un rock un pò più robusto, improvvisazione, duelli chitarristici tipici del classico southern rock, mai però così esasperati ed invadenti. E' la musica che proviene dagli stati più caldi degli USA, quelli bagnati dal Golfo del Messico e periodicamente travolti da feroci tempeste, quelli dove la cultura bianca, nera, francese e spagnola si fondono insieme; le regioni che hanno dato i natali a Duane e Gregg Allman, Art Neville ed i suoi fratelli Charles, Aaron e Cyril. 
Allman e Neville, due dinastie di musicisti importanti ed influenti per tutta la musica americana, regali appunto, che per la prima volta incrociano il loro cammino al fianco di uno dei più promettenti chitarristi blues, Mike Zito, pluripremiato dalla critica, ed un'eccellente sezione ritmica costituita dall'ex drummer della Derek Trucks Band Yonrico Scott ed il fantasioso e, quando occorre, pirotecnico bassista Charlie Wooton. I "reali" sono il figlio primogenito di Gregg, trascinante chitarrista e cantante Devon Allman (già negli Honeytribe) ed il più giovane dei fratelli Neville, cantante e percussionista Cyril. 
Lo show che sto ascoltando è quello di Boston, Massachusetts, 11 Marzo 2012 ed è molto simile a quello a cui ho personalmente assistito l'estate appena trascorsa, non ricordo esattamente la scaletta ma grosso modo i pezzi del tour sono quelli. Ecco la scaletta di Boston:

Fired Up!
Hurts My Heart
Gotta Keep Rockin'
Ways About You
Moonlight Over The Mississippi
Left My Heart In Memphis
Fire On The Mountain
Pearl River
Could Get Dangerous
Graveyard Train  >>
Whippin' Post
Sweet Jelly Donut >>
Brotherhood
Encore:
All Around The World >>
New Horizons
One Way Out

 
ALCUNE IMMAGINI SCATTATE AL TRASIMENO BLUES FESTIVAL 2012

Il concerto parte con le caldissime sonorità di Fired Up!, Neville tesse un tappeto percussivo e canta, contrappuntato dalla Gibson di Allman, poi il gruppo si permette un intermezzo percussivo già ad inizio concerto, a sottolineare che RSB sono una jam band. Hurts My Heart è molto più potente, un rockaccio cantato con grinta da Mike Zito, superlativo, probabilmente il migliore dei tre frontman dal punto di vista tecnico anche se la forza della band sta proprio nella coralità. Gotta Keep Rockin' è invece cantata da Devon, quest'alternanza sarà la prerogativa della serata. Anch'esso un rock'n'roll, anche se un pò più tranquillo del precedente, è il singolo del quale circola anche un bel videoclip che presenta la band alle prese con le registrazioni in studio.


Ways About You è più lenta ma molto intensa, Zito canta con sentimento fino all'esplosione delle twin guitars, poi Moonlight Over The Mississippi riporta alle atmosfere iniziali, Left My Heart In Memphis è un tocco leggero poi i cinque salgono sulla vetta delle montagne Deadiane con la cover di Fire On The Mountain, calda e splendida ondeggia per una decina di minuti, leggermente psichedelica e molto Allmaniana con una notevole slide guitar di Mr. Zito.
Pearl River è un blues molto intenso, primo brano scritto da Zito in collaborazione con Neville, proviene dal suo album del 2009 dallo stesso titolo ed è stato eletto brano blues dell'anno. Could Get Dangerous è uno degli highlights della serata, è un brano di Devon presente nel suo secondo album solista (con gli Honeytribe); ottima composizione intensamente cantata dall'autore con assolo di Zito, poi Allman che prima fa salire la temperatura, poi và a cercare la jam con il compagno (lo fa più volte durante la serata) per lasciare infine spazio ai solismi di Yonrico e Wooton. L'assolo del bassista a Città della Pieve  è stao molto più lungo e pirotecnico ed ha mandato il pubblico in visibilio. Con Graveyard Train l'atmosfera si fa più tranquilla, il brano dei CREEDENCE viene rivisto in modo molto personale, a Boston Devon innesta anche una porzione di Whippin' Post.
Sweet Jelly Donut contiene le presentazioni e sfocia in Brotherhood, circa sette minuti di jam strumentale che ricorda i primi ALLMAN BROS. Breve pausa ed ecco subito i bis con All Around The World e New Horizons, poi un divertente "duello" a colpi di famosi riffs tra Devon e Mike che come quasi sempre nei loro concerti precede One Way Out che di solito stende definitivamente la platea.
Al Trasimeno Festival invece le posizioni sono state diverse perchè il brano di Sonny Boy Williamson l'hanno suonato un pò prima (tra l'altro in versione decisamente superiore a quella che sto ascoltando) e durante il duello Devon ha sparato anche Jessica, naturalmente accolta con un boato.
Splendidi concerti quindi, dal vivo la band è decisamente superiore rispetto al disco in studio, comunque buono ma molto più pulito, standard direi.


Mi piace concludere con un ricordo della serata passata al festival lo scorso Luglio. Già durante il pesante spettacolo del gruppo di apertura ho cercato di avvicinare qualcuno dei musicisti ma proprio sul più bello siamo stati allontanati. Comunque ci hanno detto che dopo il concerto tutti i membri della band sarebbero stati al tavolo del merchandising per firmare autografi a tutti e così è stato. Io ed i miei pards abbiamo così potuto stringere la mano a questi grandi, simpatici, disponibilissimi musicisti. La scena buffa è stata questa: Stefania, presa dall'entusiasmo, mi strappa di mano il CD della Derek Trucks Band che avevo portato per Yonrico e chiede un autografo al primo che le capita a tiro, cioè Cyril Neville. Questi, un pò sbalordito firma comunque. Non faccio in tempo a portarla via che, vista la scena, ecco accorrere Yonrico col pennarello in mano che le spiega che "lui" suona in quel disco ed appone volentieri la sua firma sulla copertina. Noi naturalmente ci scusiamo per l'equivoco e ringraziamo di cuore per la splendida serata. Quando dico a Devon che sono un fan del padre mi risponde "me too!" e ci diamo appuntamento al prossimo concerto in terra italica o chissà dove.


G_BARONCELLI
 
 

sabato 20 ottobre 2012

LA SELVAGGIA MISS COPELAND






Shemekia Copeland è nata ad Harlem, New York, 10 Aprile 1979 e, a soli sedici anni, ha cominciato a calcare i palchi sotto la guida del padre Johnny, chitarrista e cantante di discreta fama. Si è guadagnata un contratto con la Alligator ed ha inciso un pugno di eccellenti dischi, è passata poi alla Telarc  e pubblica oggi, a trentatré anni, l'eccellente 33 1/3, giocando nel titolo con la propria età e con la passione per il vinile.
Johnny Clyde Copeland è scomparso troppo presto, sessant'anni, non ha inciso moltissimo, si è guadagnato una certa notorietà grazie alle sue indubbie qualità, ottimo chitarrista, energico ma elegante, voce roca e passionale. Il suo blues è quello contaminato dal funky, travolgente, sudato, alternato ai classici "lentoni", tra Chicago ed il Texas; il suo più grande successo l'ha ottenuto con SHOWDOWN, disco uscito negli anni ottanta e condiviso con altri due assi della sei corde, Robert Cray e sopratutto Albert Collins. Johnny però non ha lasciato il segno più di tanto, la sua musica si è persa in un calderone di proposte simili, in tanti casi anche migliori, onesto ma non eccelso.
Shemekia gli deve molto e lo celebra ad ogni uscita discografica inserendovi una sua composizione, ma appartiene, secondo me, ad un'altra razza, è una purosangue, una fuoriclasse, chiamatela come volete. Dal primo momento che l'ho ascoltata ho avuto la sensazione di trovarmi di fronte ad un'artista di prima classe, che non ha eguali nell'attuale scena blues. La sua voce è potente, il suo aspetto fiero, le sue composizioni energiche, fonde i classici blues, funky, soul con il rock, ha un suono al passo coi tempi, adatto alla radio seppur mai smaccatamente commerciale, potente senza sconfinare nel rock puro. Shemekia Copeland ha una voce naturale, affronta le canzoni di petto e non ha acquisito le sue capacità con lo studio, non gioca con i trucchetti tecnici del 99% delle sue colleghe odierne, usa i polmoni ed arriva dove vuole. Oddio, di colleghe non è che ce ne siano molte, quelle di qualità guardacaso hanno la pelle scura (Ruthie Foster, Ty LeBlanc), le altre il più delle volte sono roba da MTV o X Factor e mi fanno ridere (o piangere, fate voi). Shemekia è di un'altra pasta. Il tono della voce è un misto tra Koko Taylor (che viene alla mente anche per la grinta) ed Etta James, nei momenti più tranquilli Ruth Brown, il tutto con spiccata personalità già palese anche nel disco d'esordio, TURN THE HEAT UP (1998). Tipico prodotto Alligator, classico quanto si vuole ma fresco ed eccitante, sta al pari dei migliori lavori delle suddette blues ladies; suonato con mestiere dal combo guidato dal chitarrista Jimmy Vivino e con la partecipazione di una sezione fiati qua e là, impreziosito dagli interventi di una serie di chitarristi quali Monster Mike Welch, Mike Hill e sopratutto Joe Louis Walker che volle fortemente partecipare alle registrazioni dopo aver ascoltata la ragazza qualche tempo prima dal vivo. Il suo intervento anche vocale in My Turn Baby è da applausi, la canzone è un up-tempo alla Got My Mojo Workin' che offre un notevole duetto.
La "bimba" spara quattordici pezzi tra i quali le sofferte Ghetto Child di papà Johnny e Married To The Blues, i picchi emozionali del disco. Il resto, come già detto, è splendido e classico R&B e la sola cosa che stupisce è che sia una diciannovenne la protagonista e non una consumata reginetta dell'epoca d'oro
 
 LA MIA COPIA AUTOGRAFATA DEL DEBUTTO...
 
E GLI ALTRI DISCHI
 
Al secondo appuntamento discografico, la Copeland da una sterzata decisa verso il rock e ci presenta WICKED (2000). Un riff rollingstoniano ci travolge non appena diamo fuoco alle polveri, è It's 2 AM con l'armonica assassina di Sugar Blue. Poi un rhythm'n'blues memphisiano con i fiati in sottofondo, una ballata soul che sa un pò di Choking Kind, un blues lento d'atmosfera. Shemekia esplora tutte le sfacettature del blues infilandoci anche un'acustica Beat Up Guitar direttamente dal delta del Mississippi ed un bel duetto con la signora Ruth Brown. Il biglietto da visita migliore per quest'album è però la fulminante Wild Wild Woman (da qui il titolo di quest'articolo) dove la voce della ragazza si fa veramente feroce, una tigre pronta all'attacco come dice lei,  sopra una ritmica che pompa, honky tonk piano martellante e chitarre furiose. La canzone rispecchia esattamente il ghigno della foto di copertina, è una di quelle che stendono e lascia senza possibilità di replica. Un altro pezzo da novanta è Steamy Windows di Tony Joe White della quale ne fece una versione esplosiva Tina Turner qualche anno fà; qui si gioca invece sul tempo completamente diverso e sull'eccellente chitarra solista. La versione di Tina è insuperabile quanto ad energia ma qui si gioca in un altro campo. WICKED contiene poi l'ottima Up On 1-2-5 ed alcune ballate bellissime come The Fool You're Looking For e la conclusiva It's My Own Tears.
Passano gli anni, la giovane artista accumula esperienza e "cade nelle grinfie" di Mac Rebennack, da tutti conosciuto come Doctor John che la guida nella realizzazione di TALKING TO STRANGERS. Il Doc suona e canta ed il sound manco a dirlo è profondamente contaminato col New Orleans sound. Ironia della sorte vince il titolo di album blues dell'anno anche se non contiene molti brani strettamente blues; molto funky invece, ritmo ed una spruzzata di soul. La musica dell'anima invece la fa da padrone nel quarto album che porta il marchio degli studi Muscle Shoals e della produzione di Steve Cropper; torna in mente anche la grande Aretha ed il magnifico sound dei suoi albums migliori nati proprio negli stessi studi, Shemekia al solito ci mette tutta la sua energia, sfodera anche un mezzo hit (Who Stole My Radio) e conclude alla grande la sua esplorazione di tutte le sfacettature della musica nera, blues, R&B e rock, funky, soul.
Col passaggio di etichetta noto un certo avvicinamento al pop ed al moderno R&B, il produttore ha un nome meno altisonante che in passato,  Oliver Wood, ma ha prodotto Medeski Martin & Wood e la Tedeschi Trucks Band, ha quindi un approccio più moderno nei confronti di una musica comunque classica e di qualità. NEVER GOING BACK è veramente bello e seducente, moderno, maturo, degno capitolo dell'ottima discografia della Copeland. Si cercano di sfruttare tutte le potenzialità commerciali puntando anche sul bell'aspetto dell'artista, che non avrà un fisico da top model ma è sicuramene carina, certo, magari non esattamente come cercano di farci credere le copertine degli ultimi due albums  che sembrano passate sotto il pennello magico di Photoshop o simili. Sopratutto quella di 33 1/3, il nuovo lavoro appena pubblicato, a tre anni e mezzo di distanza dal precedente, che non ho ancora ascoltato per intero ma ad un primo impatto sembra ancora migliore del precedente. Un suono perfetto, una serie di autori eterogenea con covers di Bob Dylan, Sam Cooke e, come da tradizione, il padre Johnny. Shemekia ci racconta undici storie di vita, il blues è per lei non più solamente "la mia ragazza mi ha lasciato" ed altre tristezze simili come da tradizione, ma scaturisce da ogni singolo episodio della vita, siano esse cose buone o cattive, comuni od insolite.
Shemekia Copeland oggi è la regina del blues, ha suonato di fronte al presidente Obama al fianco di gente come B.B. King, Buddy Guy, Mick Jagger, Jeff Beck, ha recentemente dato il suo ultimo saluto a Hubert Sumlin nel concerto tributo al mitico Apollo Theater di New York ove ha partecipato anche alla celebrazione per il centenario della nascita di Robert Johnson. Si è conquistata il titolo con una serie di dischi eccellenti e concerti ad alto tasso emozionale. Avanti così. Grande!

G_BARONCELLI


martedì 9 ottobre 2012

BOOTLEGMANIA: ZZ TOP

ZZ TOP sono "just a little old band from Texas" come si sono autodefiniti. Dal 1970 ad oggi ci hanno proposto il loro solido boogie texano senza, in fondo, cambiare una virgola nell'approccio compositivo. Sono cambiati i suoni, questo si, hanno sperimentato in modo molto particolare con l'elettronica innestata anche pesantemente sul minimale rock blues ma è sufficiente ascoltare qualche concerto, scelto a caso nell'arco della lunga carriera, per rendersi conto che anche quando hanno esagerato un pò con la tecnologia sotto sotto la musica era quella: giro di blues, basso tuonante, riff potenti e brevi assoli lancinanti, cambi di tempo, accelerazioni improvvise, il tutto condito da divertenti coreografie dei due barbuti axemen.
La potenza che sono sempre riusciti ad ottenere dal vivo ha del miracoloso ed è quindi inspiegabile che manchi nella loro discografia "classica" un disco dal vivo, magari doppio LP, a fotografare le loro performance sul palco. Solo qualche brano, una facciata di un vecchio disco in vinile, quella leggendaria A-side di FANDANGO, poi più nulla. E' solo col nuovo millennio che si rende disponibile del materiale, tra CDs e DVDs, nuove uscite o ristampe, ripescaggi etc etc. La bomba però andava sganciata nei primi ottanta quando la band, tenendo fede al proprio nome, era al top! Ormai quegli anni sono andati per sempre e tutto quello che si riascolta volentieri non ottiene lo stesso effetto che avrebbe avuto all'epoca un doppio disco da affiancare ad altri leggendari live delle più grandi rock bands del mondo (devo stare ad elencarli?).
Pubblicare qualcosa oggi è solo nostalgia, si è perso, nella maggior parte del pubblico, il piacere di "possedere l'oggetto", si sbircia su youtube, si scarica qualche brano, anche dischi completi che poi rimangono lì, nell'hard-disk, una serie di numeri binari (si chiamano così?)che si confondono in mezzo a migliaia di titoli, dati, giochi etc etc. Il magico rito di strappare il cellophane, una bella copertina in cartone 30x30, magari apribile, il bel discone in vinile nero che estraevi con cura dalla busta interna protettiva, le note di copertina, i titoli, i ringraziamenti che riuscivi a leggere anche senza lente d'ingrandimento. Vabbè, lasciamo perdere. 



L'ETICHETTA DI UN DISCO IN VINILE, RISALENTE AL PALEOLITICO
 
  
ZZTOP: LIVE IN PASSAIC, NEW JERSEY, 4 MAGGIO 1980 
Il tour a supporto del nuovo DEGUELLO partì dalla Louisiana nel Novembre 1979 terminando in Mississippi nel Gennaio 1981 e li portò per la prima volta anche in Europa per tre spettacoli: il 21 Aprile 1980 a Parigi ed il 24 a Londra, con debutto il 20 ad Essen, concerto che fu anche filmato e trasmesso in TV per il famoso spettacolo Rockpalast.


Questo concerto è stato bootlegato in forma incompleta spesso, con vari titoli, di volta in volta segnalato come 30 Agosto, 15 Giugno o 4 Maggio, che poi è la data corretta; ho personalmente controllato le quasi 80 date del tour e mi risulta che quella del Capitol Theatre di Passaic sia l'unica esibizione nel New Jersey giungendo alla conclusione che, qualunque sia il titolo, si tratta sempre dello stesso show radiofonico. La tracklist può essere leggermente differente tra un bootleg e l'altro ma non credo esista una versione completa, qualche canzone è sempre stata omessa. In tutto il tour suonarono 20/25 pezzi diversi, con alcune differenze tra uno show e l'altro, lasciando di solito invariate le sequenze iniziali e finali. Lo show che mi appresto a recensire è molto simile a quello del Rockpalast, oggi finalmente edito ufficialmente in DVD, anche se in Germania suonarono anche Just Got Paid ed una prima versione di Tube Snake Boogie, brano che apparirà sull'album successivo, EL LOCO. La band in questo periodo era al massimo della forma e della creatività ed è un vero peccato che non sia uscito un bel doppio live nei primi anni ottanta.
Allora apriamo il cassettino del lettore CD ed infiliamo il supporto, tasto Play e subito ZZ mettono le cose in chiaro con tre pezzi fusi in un'unico esaltante medley, I Thank You, Waitin' For The Bus e Jesus Just Left Chicago tanto perchè l'attacco è sempre la miglior difesa.
Pochi secondi e parte I'm Bad I'm Nationwide seguita da Low Down In The Street, poi inconfondibili note blues introducono il lento e sofferto A Fool For Your Stockings con un breve ed applaudito monologo che sfocia in un ruvido assolo bruscamente interrotto perché è tempo di Cheap Sunglasses e poi della cadenzata ma furiosa Arrested For Driving While Blind. Lo spettacolo prosegue con She Loves My Automobile e HiFi Mama durante le quali si ascoltano dei fiati pre-registrati (il pubblico presente in sala poteva vedere immagini dei Lone Wolf Horns, che altri non erano che i nostri tre amici, proiettate su uno schermo alle spalle del batterista). Il CD in mio possesso si conclude con le brucianti Dust My Broom, Jailhouse Rock e Tush come da consuetudine in quel tour.
Emozioni impagabili grazie a questa "piccola vecchia band" texana. 


G_BARONCELLI

lunedì 8 ottobre 2012

STRANGE BREW: LYNYRD SKYNYRD AT MUSCLE SHOALS ED ALTRO...




SKYNYRD'S FIRST: THE COMPLETE MUSCLE SHOALS ALBUM
L'ascolto di questo album è riservato a  fans incalliti che non vedono l'ora di fare nuove scoperte riguardo i loro beniamini per sollazzarsi con qualche grezza versione primordiale di brani successivamente entrati nella storia o qualche gioiellino ingiustamente estromesso dalla discografia standard.
Nonostante la bellezza e la qualità eccelse, il debutto PRONUNCED LS non restituisce ancora quel magnifico sfavillante suono che si perfezionò con SECOND HELPING ed esplose definitivamente con ONE MORE FROM THE ROAD ed il capolavoro STREET SURVIVORS.  Nel disco di cui parliamo oggi siamo ancora ai primordi ed i suoni sono ancora più naif rispetto al debutto, pregni ancora di echi di quel pop-rock psichedelico tipico di Byrds e Buffalo Springfield. L'arco temporale delle registrazioni va dal Giugno 1971 al 1972, la formazione non è ancora ben definita, Ronnie, Gary ed Allen non hanno ancora deciso se alla batteria deve sedere Bob Burns o Rick Medlocke (ed allo stesso tempo Rick probabilmente non ha ancora deciso se vuole picchiare sui tamburi, cantare o suonare la chitarra), al basso ruotano Greg T.Walker, il magnifico Ed King (chitarrista e fondatore dei Strawberry Alarm Clock) e Leon Wilkenson nelle session più tarde. Al piano troviamo già "Mr Hony Tonk" Billy Powell.
Molti dei pezzi erano già stati editi in vinile nel 1978 su FIRST AND LAST (di cui questo CD rappresenta la ristampa potenziata), altri nello splendido box del 1991, all'interno del quale comunque comparivano anche registrazioni ancora precedenti (se si vuole arretrare ancora bisogna invece acquistare la raccolta COLLECTYBLES). In questo CD, come da sottotitolo, vengono presentate le registrazioni effettuate per il disco d'esordio ai famosi studi Muscle Shoals, in Florida. Questa è la tracklist completa: 
 
 
Free Bird,
One More Time
Gimme Three Steps
Was I Right or Wrong
Preacher's Daughter
White Dove
Down South Jukin'
Wino
Simple Man
Trust
Comin' Home
The Seasons
Lend a Helpn' Hand
Thing Goin' On
I Ain't the One
You Run Around
Ain't Too Proud to Pray

 
Oltre la metà dei brani furono scartati e quelli scelti furono nuovamente registrati con la produzione di Al Kooper per la prestigiosa Sound Of The South (MCA). In quest'album naturalmente non c'è niente di meglio rispetto ai lavori "ufficiali" e si nota una certa ricerca di una direzione ben precisa. Le parti vocali in genere sono piuttosto acerbe e piene di un inutile eco (vedi I Ain't The One che però guadagna un bel basso in evidenza),  Trust ad esempio già non è indimenticabile su GIMME BACK MY BULLETS, tantomeno in questo caso.  I due pezzi conclusivi sono cantati da Medlocke: uno, You Run Around è uno scatenato r'n'r che lascia presagire lo straripante stile Blackfoot del futuro, l'altro è una ballata troppo sixties. Un'altro degli inediti assoluti è Wino, che dire, tale poteva rimanere! Was I Right Or Wrong e Comin' Home invece mi sono sempre piaciute ed avrebbero meritato di più ma forse furono scartate perché in alcuni momenti ricordano molto altri pezzi. Il vero delitto però è il non aver pubblicato la grandissima Down South Jukin' che è stata proposta su disco solo come B-side di Free Bird, singolo edito sull'onda del successo del secondo album. Peccato, sarebbe divenuta un classico ed avrebbe potuto impreziosire ulteriormente il leggendario doppio dal vivo.



Come dicevo sopra, un acquisto molto interessante potrebbe essere il doppio COLLECTYBLES, edito nel 2000, che raccoglie i primissimi singoli di quella che solo diversi anni dopo sarebbe diventata la favolosa southern band. Michelle risale al 1968 quando la band si faceva chiamare ONE PERCENT e non è per niente male; addirittura la voce di Ronnie mi ricorda moltissimo quella di Gregg Allman ed è già presente quello che diventerà il marchio di fabbrica del gruppo ovvero l'alternare giro melodico con focose parti chitarristiche. In questo caso i travolgenti assoli hanno un forte gusto di  Cream! La B side, Need All My Friends  è decisamente più tranquilla. Ottimo sarebbe ad esempio l'altro singolo del '71, I've Been Your Fool, brano country oriented un pò sullo stile di T For Texas, sul retro la bella e dura Gotta Go, piuttosto Allmaniana. Peccato che, per complicare le cose, non sia incluso in questa raccolta (si trova invece su THE BEST OF THE REST o su youtube!). Per dar valore al doppio CD è inclusa invece tutta una serie di demos, outtakes e brani dal vivo molto interessanti tra cui anche una performance risalente al 1973.
Concludo questo STRANO MISCUGLIO parlando di un altro imperdibile disco un pò troppo ingiustamente dimenticato, che alle volte viene compreso nelle discografie addirittura tra le compilations. Si tratta invece di tutt'altro, nuove registrazioni di brani famosi e non tratti dall'ampio repertorio della band affiancati da inediti assoluti, in una fresca vesta acustica. Il disco in questione è il bellissimo ENDANGERED SPECIES pubblicato su Capricorn nel 1994 e prodotto da Barry Beckett (MUSCLE SHOALS). Apertura affidata guarda caso alla splendida Down South Jukin', una delle perle del disco, bel suono, vero unplugged con Ed King e Gary Rossington che si scambiano gli assoli ed il brillante piano di Bill Powell che primeggia. Si prosegue ad alti livelli con la bella cover di Heartbreak Hotel di Elvis, lenta, cadenzata, gran vocione di Johnny, poi arriva Devil In The Bottle, a firma Rossington-Van Zant, un'altra delle mie preferite. Suoni perfetti e slide guitar ad arricchire il tutto. Altro brano superlativo è Things Goin' On, tratta come I Ain't The One e Poison Whiskey dal leggendario debutto e non hanno bisogno di commenti, belle erano e belle rimangono con questo nuovo abito. Saturday Night Special arriva da quello che è considerato il peggior album dell'epoca d'oro, comunque in questa versione perde tutta quella patina "commerciale" da facile singolo che aveva su NUTHIN' FANCY. Sweet Home Alabama, probabilmente inferiore ad altre versioni, è comunque un classico e basta. Invece Am I Losin' è, con la sua vena malinconica, strepitosa e sotterra la versione originale.
"Tutte le strade che ho percorso, tutti gli amici che ho conosciuto, ne è valsa la pena e tutto ciò che mi rimane è una canzone", questo più o meno il testo di una bella ballata per sole chitarre. La batteria torna in Poison Whiskey e nella trascinante Good Luck Bad Luck, preludio al capolavoro sonoro che dava il titolo al bell'album dell'anno precedente, splendidi arpeggi, mandolini, voce sofferta e musica in crescendo: è The Last Rebel, una delle più belle composizioni della Johnny-era e, secondo me, di tutta la carriera. Dopo il fading finale riprende, mancano i rulli di tamburi della versione elettrica ma la bellezza della canzone toglie il fiato. Hillbilly Blues è un pezzo hillbilly (ma và!), ancora ottima  e trascinante, a chiudere un disco eccellente, l'ultimo a meritare un posto al fianco degli storici lavori su MCA. Tornerò presto a parlare di Lynyrd Skynyrd, ho qualcos'altro di cui parlare.........

G_BARONCELLI 
 
  
 
 

lunedì 1 ottobre 2012

BOOTLEGMANIA: MOLLY HATCHET

 
La leggenda parla di una prostituta vissuta nel '600, si chiamava Molly ed aveva l'ascia facile. "Hatchet" Molly era un'assassina! E MOLLY HATCHET erano veramente un gruppo assassino!!! Pericoloso sestetto proveniente da Jacksonville, Florida, si presentavano al pubblico discografico con i fucili spianati e le asce del grande artista Frank Frazetta. Sul palco le asce avevano sei corde ed erano tre, imbracciate dai possenti Dave Hlubeck, Steve Holland e Duane Roland, il fronte di fuoco era completato dal basso di Banner Thomas e la batteria di Bruce Crump e sopratutto da un frontman eccellente, un vero pezzo da 90, amato ed idolatrato dai fans, il leggendario Danny Joe Brown.


Formatisi a metà anni settanta, lasciarono presto il circuito dei piccoli bar di provincia e firmarono un contratto con la Epic sotto la guida dello stesso manager dei loro illustri concittadini LYNYRD SKYNYRD. Fu così che nel 1978 pubblicarono il primo omonimo album, bellissimo, un travolgente assalto sonoro, suono moderno (per l'epoca), composizioni perfette, trascinanti, nove pezzi che costituirono per anni l'ossatura degli spettacoli dal vivo ed ancora oggi sono naturalmente i pezzi forti della scaletta. Beh, oggi quel che rimane di quella band è ben poco, negli anni la macchina da guerra non si è praticamente mai fermata nonostante i cambi di formazione, l'inaridirsi delle idee, le dipartite, ma gli ultimi dischi prodotti hanno poco a che spartire con le origini. Potenti lo sono senz'altro, ma potrebbero benissimo portare la firma di, che so io, i RUNNING WILD o un'altra qualsiasi metal band teutonica.
Ma nel 1979 i Mollys facevano veramente paura senza dover per forza essere pesanti come macigni, il loro boogie travolgente, le loro iniezioni di adrenalina somministrate al classico Skynyrd sound erano davvero inarrivabili per qualunque coeva band. Il lavoro d'esordio, valutandolo oggi, si potrebbe definire il miglior disco di southern rock mai uscito tant'è eccitante e perfetto; non esiste molto in effetti di tale qualità, forse giusto Second Helping mette in sequenza così tanti fuoriclasse ma il suono della band di Gary Rossington era ben più timido e rootsy. Il pubblico al quale si rivolge la giovane band della Florida è quello decisamente rock, la produzione di Tom Werman, le violente copertine di Frazetta, i concerti europei in compagnia di Whitesnake, Ramones, Motorhead e simili, e quel pubblico certo non rimane deluso. Non dovrebbe essere troppo difficile procurarsi alcune delle eccellenti registrazioni tratte dalle esibizioni di quel magico anno, concerti promozionali trasmessi per radio e quindi di eccellente qualità. Dai miei "archivi" estraggo con gioia ed orgoglio quello show di Louisville del 19 Aprile, quello del giorno successivo all'Agorà di Atlanta, Georgia oppure la più breve esibizione al festival di Reading. Concerti esaltanti, energici oltremodo, che fotografano al meglio quella che era la proposta del sestetto; live in Louisville è il più completo, quasi tutto l'album d'esordio viene presentato ad un pubblico entusuasta, le punte di diamante sono le fantastiche Bounty Hunter, Gator Country o quella fantastica cover di Dreams (Gregg Allman) completamente trasformata rispetto all'originale; ci sono poi T For Texas di Jimmy Rogers e Crossroad Blues di Robert Johnson già passate per le mani dei Lynyrd Skynyrd ed ulteriormente rinforzate.


Ma c'è sopratutto anche quella lunga e travolgente Harp Jam che fa coppia con la conclusiva Boogie No More, due pezzi che possono mettere al tappeto chiunque. La prima è un lunghissimo boogie che permette l'esibizione solista di ogni membro del gruppo compreso, come da titolo, un infuocato Danny Joe all'armonica, l'altra è la mazzata finale, partenza a media velocità e voce possente che ha solo il tempo di cantare una breve strofa prima della fulminea accelerazione e poi giù un diluvio di note alla Free Bird che mette fine ad un'ora e un quarto di pura energia. In scaletta anche pezzi dall'ancora grande Flirtin' With Disaster, nel concerto di Reading viene anche sparata la bruciante title track sulle teste di un pubblico completamente asservito alla causa sudista.
Purtroppo questi nastri non sono mai stati editi ufficialmete ed abbiamo dovuto aspettare quel, secondo me deludente, Double Trouble del 1985, quando la band è quella senza il tridente e con i fastidiosi synth di John Galvin. Peccato, anche i MOLLY HATCHET avrebbero avuto il loro bel doppio live competendo ad armi pari o forse superando anche l'eccellente One More From The Road dei loro influenti concittadini che tutti conoscono.

G_BARONCELLI






  


lunedì 24 settembre 2012

DEEP PURPLE: Abandon (1998) e la fine di un'era

ABANDON: l'abbandono totale alla musica come dichiarò all'epoca della pubblicazione Roger Glover, anche però gioco di parole col fatto che, uniti più che mai ed in splendida forma, i DEEP PURPLE erano all'epoca "a band on" ovvero una band attiva, positiva, giusta. Letto con gli occhi di oggi risulta essere purtroppo anche l'ultimo album in studio prima dell'abbandono di Jon Lord. Il disco è eccellente sotto tutti i punti di vista, composizione, suono, packaging, il migliore dalla reunion, al pari di PERFECT STRANGERS pensai all'epoca della sua uscita e sono ancora di questo parere.
 


IL CD PROMOZIONALE CONTENENTE ESTRATTI DALL'ALBUM ED UN'INTERVISTA


Vedere i DEEP PURPLE oggi dal vivo può avere ancora un senso?
La band è sicuramente affiatatissima, sulle qualità tecniche naturalmente non si discute, Roger Glover è, negli anni, cresciuto sempre più e "on stage" domina con la sua carica ed il suo suono possente facendo coppia con il vero e proprio "mostro" che è Ian Paice, inspiegabilmente ancora al top, oltre i limiti dell'umano. Se analizziamo la storia del rock però dobbiamo constatare che quelli di oggi non sono i DEEP PURPLE ma forse andrebbero definiti come la miglior cover band mai esistita. E' un pò perfido affermare ciò però è la storia che parla. Alla fine degli anni sessanta il beat ed il rhythm'n'blues bianco si stavano pian piano indurendo sempre più, dagli Yardbirds sarebbero nati i Led Zeppelin, dagli Earth i Black Sabbath, dagli Spice gli Uriah Heep, i DEEP PURPLE avrebbero licenziato il "morbido" Rod Evans per rinforzarsi col diamante grezzo che urlava all'epoca con gli Episode Six, il giovane Ian Gillan. La nuova formazione, anche se non la prima, diventò per tutti quella "originale" e fù l'autrice di capitoli fondamentale per tutto il rock inglese. L'elemento caratterizzante di questa band era il marcato dualismo tra chitarra e tastiere, organo Hammond per la precisione, che si davano battaglia a forza di assoli sul palco. Jon portò la band IN CONCERTO, Ritchie li portò IN ROCK, la classica fusa con l'hard rock ed il r&b, quello divenne il loro marchio di fabbrica.
Dopo l'ascesa arrivò però l'inevitabile declino, l'altalenante successo portò a sostituire ancora la coppia basso/voce fino a che, colpo di scena, anche "the man in black" diede forfait non contento dell'avvicinamento al funky e R&B. Come Taste The Band, l'album con l'americano Tommy Bolin è un capolavoro anche se Speed King è Fireball sono lontane, però è la dimostrazione che i ragazzi possono fare grandi cose anche senza Blackmore che non vuole fare musica "da lustrascarpe" come si espresse egli stesso in una forma, diciamo, poco gentile verso la popolazione di colore e la loro musica. Con la reunion del 1984 però appare nuovamente evidente che i DEEP PURPLE sono loro, Gillan, Blackmore, Lord, Paice, Glover e nessun'altro è come loro. Tant'è vero che quando le nuove beghe interne portano ad un tour con Joe Satriani al posto di Ritchie o ad un penoso album con Joe Lynn Turner al posto di Gillan, la delusione è tanta e l'insuccesso pure. Dopo le ennesime furibonde liti tra Gillan e Blackmore e le figuracce sul palco anche documentate nel video di Come Hell Or High Water arriva il definitivo abbandono del chitarrista e la band "rinasce" con l'innesto del migliore axeman sulla piazza, Steve Morse. L'americano è oggi una delle migliori sei corde in ambito hard rock e fusion e dopo un certo periodo di rodaggio insieme, i cinque raggiungono un impatto sonoro superlativo, con una giusta dose di novità e tradizione.





Al primo appuntamento discografico, nonostante l'alta qualità ed indubbia bellezza di alcune composizioni, la differenza col passato è forse troppo evidente, accentuata anche dalla timbrica di Morse completamente diversa da quella di Blackmore, ma con l'uscita discografica del 1998 di cui vado finalmente a parlare, la vetta è di nuovo raggiunta. Sui palchi di tutto il mondo i nostri eroi hanno raggiunto un'intesa perfetta, le scalette dei concerti non sono più costituite dai soliti immancabili hits ma vengono recuperati praticamente tutti i brani che facevano parte dei vari Machine Head, Fireball, In rock, brani che non erano mai stati suonati prima dal vivo, e probabilmente gran parte della responsabilità di tale blasfemia è da attribuire al bizzoso Ritchie. Uno di questi gioielli, la splendida Bloodsucker, viene addirittura riproposta in chiusura dell'album che voglio recensire oggi. E' un grande regalo a tutti i fans, posto a concludere in bellezza un album, lo ripeto, straordinario, che serve anche a dimostrare al mondo ed a Gillan stesso che la sua ugola è ancora in grado di affrontare tali irti percorsi. PURPENDICULAR non è certo brutto ma innanzitutto è agli occhi di molti l'album che presenta l'impostore Morse, poi il suono è completamente diverso dal passato, certe sonoritò proprio non mi piacciono anche se alcune composizioni sono splendide come l'opener Ted The Mechanic che, ricordo, dal vivo accompagnava un pogo scatenato. Grandi anche Sometimes I Feel Like Screaming e Losin' My Strings, superlativa è poi la saltellante Rosa's Cantina, con armonica ed un grande Lord. Ci sono però anche pezzi imbarazzanti e ABANDON è certo un'altra cosa. 
L'apertura è affidata all'aggressivo cantato di Any Fule Kno That, quasi parlato su un riff all'unisono organo/chitarra sorretto dalla possente batteria di Ian Paice, breve assolo, cambio di tonalità e ripetizione ossessiva.
Almost Human ha un andamento simile con una bella e complicata scala che introduce un bell'assolo di Morse.
Splendida atmosfera con Don't Make Me Happy, che alle prime note ricorda When A Blind Man Cries e poi acquista energia con l'espressivo canto di Mr. Gillan. Uno dei brani più belli che fa da preludio a quello che secondo me è il capolavoro del disco, tastiere paradisiache, esplosione con un grandioso riff, tempo tagliato: così si sviluppa Seventh Heaven che dopo un paio di giri di cantato vede un abbassamento, un assolo in crescendo e nuova esplosione sonora fino al finale. Grandiosa e vagamente "progressiva". Cambi di atmosfera anche all'interno di Watching The Sky, un altro picco creativo dell'album. Gillan passa dalla dolcezza estrema all'aggressione più totale mentre i suoi compagni ci danno dentro che è un piacere. Per ora siamo a 5 su 5, "finalmente" arriva un brano che mi piace un pò meno, altrimenti ci sarebbe da preoccuparsi!
Fingers To The Bone mi piace in effetti meno, sopratutto per la scelta dei suoni anche se il pianoforte a metà è grande, anzi dovrebbe durare di più, svilupparsi e crescere. Comunque è il secondo "lento" del disco ed ha il merito di essere costruito in modo originale.
Passiamo alla divertente Jack Ruby con le urla Gillaniane poste su un cadenzato giro blues alla Moby Dick / Rat Bat Blue.
She Was è invece quasi un riempitivo, meglio Whatsername anche se ha il difetto di contenere uno di quei refrain orecchiabili/radio friendly che odio. Nonostante tutto la band cerca sequenze di accordi fantasiose per mescolare un pò la minestra. Torniamo ai livelli iniziali con 69, che racconta di un periodo magico e Gillan si diverte a citare i vari locali che hanno segnato condizionato la sua crescita artistica, in tutto su un riffaccio prepotente, un suono di chitarra magnfico ed un Paice che pesta come un dannato. Evil Louie ha un testo che può essere criptico o nonsense, decidete voi, musicalmente è valida e permette alla sezione ritmica di divertirsi parecchio. Ed ora teniamoci forte perchè il disco, come detto, si conclude con Bloodsucker ammodernata e tirata a lucido, stupenda, quel riff di organo distorto che è il marcho di fabbrica di Lord, gli assolo botta e risposta con un Morse che si arrampica su scale inimmaginabili e l'ultima strofa cantata in un graffiante falsetto che nessuno avrebbe scommesso mezzo penny potesse ancora essere alla portata di Gillan. Invece Ian era addirittura ancora in grado di proporla dal vivo. 10 e lode.

 
ORIGINALE CD SINGOLO SAGOMATO A CELEBRAZIONE DEL TOUR AUSTRALIANO


Questo capitolo discografico e decine di splendide esibizioni dal vivo diedero la prova che anche senza Blackmore i DEEP PURPLE erano ancora una band da vedere con spettacoli dal vivo freschi e vitali come dimostrano anche le diverse pubblicazioni dal vivo. Sono passati altri quattordici anni però ed il punto debole, purtroppo, è oggi proprio la voce di Gillan che non è più in grado di raffrontarsi con lo storico repertorio. Bisogna sinceramente prenderne atto, anche se devo ammettere che solo pochi mesi fa mi sono ritrovato a navigare famelicamente sul web alla ricerca di eventuali date italiane di un prossimo tour perchè mi era nata una certa voglia di rivederli. Se questo non è amore!
Quando il buon Lord prese la decisione di autopensionarsi forse capì quello che gli altri ostinatamente non vogliono ammettere ed arriviamo al quesito che ponevo in precedenza. Mancando Ritchie Blackmore e Jon Lord, siamo sicuri che i cinque che si accingono oggi a pubblicare un altro album siano davvero i DEEP PURPLE?


G_BARONCELLI


Dedico questo articolo alla grandezza di una band del passato ed alla memoria del loro tastierista, il gentile e geniale Jon Lord.